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PASSAPORTI

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«Il viaggiatore vide città che esistevano identiche duemilatrecento anni avanti che lui passasse. Era vestito di bianco e calzava sandali: era forse quella l’unica misura per rispettare un luogo. Riempiva il taccuino di impressioni. Al ritorno si accorse che le pagine erano completamente bianche, come se la sua scrittura fosse scivolata via.» Non meno aeree e trasognate dei luoghi fantastici creati da Swift o Rabelais, le città visitate in questo viaggio esoterico hanno sembianze reali, nomi consueti, segni tracciati su mappe e segnavia. A ricrearle sulla pagina è un instancabile flâneur, uno scrittore che serpeggia fra i vicoli algerini e nella casba dei carruggi genovesi, che solleva lo sguardo sulla Prospettiva Nevskij o sprofonda nei bassifondi di Parigi, ancora infestati da spettri fin de siècle. Simili a una seduta spiritica, le sue peregrinazioni ridanno corpo a fantasmi letterari, permettendoci di incontrare Puškin nei caffè di San Pietroburgo poco prima della morte in duello, di incrociare Joyce, sbertucciato e ubriaco, mentre vaga nelle stradine di Città Vecchia a Trieste, o di ritrovare le tracce di Rimbaud in fuga fra le capanne bianche di Harar, così simili ad arnie popolate da api. Passaporti è un libro ramingo, un libro di viaggi, un romanzo dello sguardo in cammino. Fra parola e immagine, fra tempo scritto e tempo vissuto, Giuseppe Marcenaro disegna una sensuale geografia di ombre, occulta e avvolgente, in cui rinvenire infiniti passati, tutti a noi contemporanei.

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“L’aereo atterrò: tre case, sei palme, un’aiuola di oleandri in pieno deserto di pietra. Il termometro segnava cinquanta gradi. Lo guardò incredulo. La temperatura non era certo la misura, né il segno che andava cercando. Prese un autobus per raggiungere la città, che stava ad oltre venti chilometri dall’aerostazione. Vide allora, attorno, il nulla pietrificato: a vista d’occhio un assoluto. Vuoto? Piccolissime piante, tormentate, sofferenti. Gli avevano detto: ” quando piove il deserto diventa verde”. Sperò accadesse, per assistere, se non altro a un prodigio. Dopo un dosso provò una delle più grandi emozioni della sua vita: vide Ghardaïa. Come dentro un grande cratere lunare cinque città di fango, circondate da mura. I colori: azzurro, bianco, giallo, bruno. E poi la gran oasi – il giardino di Allah – con le palme, il melograno, il fico, la vigna. Pensò alla scelta di chi aveva vagheggiato di costruire qui la pentapoli. In questo nascondiglio i Mozabiti perseguitati poterono vivere indisturbati. L’acqua è attinta da oltre tremila pozzi per mezzo di argani. Ne intese il suono: seppe poi che viene chiamato il canto del M’zab. Sognò di essere scrittore, al di là dell’opera. Non riandò più ai testi di Gide e di Wilde che sapeva essere stati in quei luoghi. Studiò il fantasma di loro era transitato in quelle arie. E non le loro tracce: fuggiti troppo velocemente o troppo lentamente per rimanervi congelati. La vita – quella del viaggiatore – non stava ancora in nessun posto perché aveva voluto rincorrerla, ma di lei soltanto il fantasma. Il possibile sogno. Fu sconfortante, ma seppe (chissà mai attraverso quale segno) che finiva in lui: come l’idea di un dio: o è in noi o non è da nessuna parte.”

“The plane landed: three houses, six palm trees, a bed of oleander in the desert of stone. The thermometer marked fifty degrees. He looked at him incredulously.The temperature was certainly not the measure, nor the sign he was looking for.He took a bus to the city, which was over 20 kilometers from the terminal. He then saw, around, the nothing petrified: in sight of an absolute. Empty? Very small plants, tormented, suffering. They told him: “when it rains the desert becomes green”. He hoped it would happen, to attend, if only to a prodigy. After a speed bump he felt one of the greatest emotions of his life: he saw Ghardaïa. As inside a large lunar crater five cities of mud, surrounded by walls. The colors: blue, white, yellow, brown. And then the great oasis – the garden of Allah – with palm trees, pomegranate, fig tree, vineyard. He thought of the choice of those who had dreamed of building the pentapolis here.In this hiding place the persecuted Mozabites could live undisturbed. The water is drawn from over three thousand wells by means of winches. He heard the sound of it: he then learned that it is called the song of M’Zab. He dreamed of being a writer, beyond the opera. He no longer went back to the texts of Gide and Wilde who knew they had been in those places. He studied the ghost of them had transited in those airs.And not their tracks: fled too quickly or too slowly to remain frozen. Life – that of the traveler – was still nowhere because he wanted to chase her, but of her only the ghost. The possible dream. It was disconcerting, but he knew (who knows through what sign) that he ended up in him: like the idea of a god: either he is in us or he is nowhere.”